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La cultura del Bene (Comune)

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É in corso in questi giorni, al PAN, una bella mostra – Cassandra – che riepiloga gli anni del decennio appena trascorso, partendo da Genova 2001, luogo e momento simbolo, dove i movimenti di contestazione persero l’innocenza, per arrivare ai giorni nostri.
É utile per chi ha oggi vent’anni, ed ha quindi una memoria sfocata di questi dieci anni, ma anche per chi già allora li aveva, in quanto rimettendo in fila gli avvenimenti ci consente di coglierne meglio il senso, e di recuperarne una memoria non frammentata.
Una delle cose che ci viene da quel periodo – e da qui il felice titolo della mostra – è l’analisi che i movimenti no global svilupparono, tra Seattle, Porto Alegre, Genova, Firenze… Una lettura critica della deriva finanziaria intrapresa dall’economia-mondo, i cui disastrosi esiti sono oggi sotto gli occhi di tutti, e che furono largamente pronosticati oltre dieci anni fa.
Nacque, allora, anche un’idea che ha messo radici, e comincia oggi a germogliare: l’idea di bene comune.
Stefano Rodotà, nella prefazione al libro di Marco Bersani (Come abbiamo vinto il referendum. Dalla battaglia per l’acqua pubblica alla democrazia dei beni comuni) la descrive così: “I beni comuni sono ‘a titolarità diffusa’, appartengono a tutti e a nessuno, nel senso che tutti devono poter accedere ad essi e nessuno può vantare pretese esclusive. Devono essere amministrati muovendo dal principio di solidarietà. Incorporano la dimensione del futuro, e quindi devono essere governati anche nell’interesse delle generazioni che verranno.” *
Questi concetti, questo approccio alle cose, sono come dicevo ormai patrimonio diffuso, appartengono in larga misura al senso comune – come del resto testimoniato appunto dall’esito plebiscitario del referendum sull’acqua pubblica. Ma, al tempo stesso, sono ancora confinati ad un’area delimitata – in qualche misura caratterizzata dalla materialità del bene.
Comincia invece adesso a farsi strada l’idea che quest’idea possa e debba essere applicata anche a beni immateriali, quali ad es. “la conoscenza che, in rete, non ha il carattere naturale della scarsità ed è, quindi, suscettibile di usi non rivali, nel senso che il medesimo ‘pezzo di conoscenza’ può essere nello stesso momento oggetto di accesso e utilizzazione da parte di una molteplicità di soggetti”. (Stefano Rodotà, ibidem)
Siamo qui ancora nel campo della distinzione dall’idea proprietaria strictu sensu, quale predomina nel mondo della conoscenza (brevetti, copyright, diritti d’autore…). Ma ovviamente l’idea di bene comune è molto altro, e molto di più. Non si tratta, infatti, solo di una diversa nozione dei criteri d’accesso ed utilizzo. Ancora una volta, è dall’elaborazione collettiva che ci arriva una chiave di lettura più avanzata e complessa: “Il bene comune non è una risorsa né un oggetto del mondo fisico che esiste per natura. Si manifesta attraverso l’agire condiviso, è il frutto di relazioni sociali tra pari e fonte inesauribile di innovazioni e creatività. Il bene comune nasce dal basso e dalla partecipazione attiva e diretta della cittadinanza. Il bene comune si autorganizza per definizione e difende la propria autonomia sia dall’interesse proprietario privato sia dalle istituzioni pubbliche” (Fondazione Teatro Valle Bene Comune, 20/10/2011).
Ovviamente, come tutte le idee realmente nuove, entra in conflitto con il mondo pre-esistente, con le sue regole. Dal momento in cui emerge, un’idea nuova attraversa un percorso conflittuale che la porterà ad informare a sé la normativa seguente. Quella cosa che chiamiamo evoluzione… Oggi questa fase conflittuale si è appena aperta, e quindi emergono le problematiche che il conflitto genera.
Prima tra tutte, appunto, la difficoltà di recepire il nuovo nel corpus delle norme vigenti. “I beni comuni costituiscono un genere giuridico nuovo, indipendente rispetto al titolo di appartenenza” (Teatro Valle Bene Comune, ibidem).
Se dunque questo è il quadro – sociale, politico, economico – in cui oggi si colloca il processo, personalmente ritengo che sia questo il momento di fare dei passi in avanti concreti, proprio a partire dal concetto che “una crisi rappresenta un momento di rottura, e quindi anche un’opportunità“; riprendendo con forza l’idea che l’arte e la cultura devono sempre mantenere la massima autonomia dalla politica, mi piace dire che esse sono un bene comune, e che in questa logica vanno considerate e trattate. Chiaro che questo porrà dei problemi concreti, a fronte di normative che ancora non prevedono questa figura.
Dunque il nuovo deve cominciare ad affermarsi usando gli strumenti esistenti.
Da questo punto di vista, il caso del Teatro Valle a Roma mi sembra, ad un tempo, emblematico ed indicativo.
Emblematico in quanto rappresenta in qualche modo la punta dell’iceberg, il coagulo simbolico di quel processo culturale che si muove in direzione di uno spostamento di senso rispetto al concetto di proprietà, superando la dicotomia pubblico/privato.
Indicativo perchè, appunto, indica in modo forte una direzione in cui procedere.

A Napoli in piazza per i beni comuni

A Napoli in piazza per i beni comuni

Questo, oggi, a Napoli, significa aprire una battaglia per estendere l’idea di bene comune a cui la nuova amministrazione, in qualche modo, sta cercando di dare diritto di cittadinanza.
Significa lavorare per affermare l’idea che arte e cultura, più di ogni altra cosa, sono bene comune.
E che far passare quest’idea significa a sua volta impostare nel modo corretto le basi per lo sviluppo futuro della città, quello sviluppo che deve vedere appunto la cultura al centro del nuovo modello di crescita.
Per “intraprendere un processo costituente della cultura come bene comune capace di diffondersi e contaminare ogni spazio pubblico, provocando una trasformazione profonda del modo di pensare e di agire di ogni persona umana” (Teatro Valle Bene Comune, ibidem).
Poiché però, come si è detto, il diritto non ha ancora pienamente recepito questa nuova prospettiva, è necessario sviluppare un ragionamento sul come, concretamente, questa prospettiva possa applicarsi ai casi concreti.
Sul come, per intenderci, si possa non semplicemente affermare un principio, ma metterlo in atto.
É il caso di aprire un dibattito in città, su come affermare concretamente come la cultura può e deve diventare bene comune?
Attraverso quali passaggi, nel contesto attuale delle norme e delle leggi?
L’ho già scritto, e ne tornerò a parlare, perchè questo è un tema che mi sta a cuore, e perchè ritengo sia un terreno cruciale, su cui è importante aprire un dibattito pubblico.
Vogliamo affermare l’idea di bene comune della cultura. Perchè vogliamo bene alla città.
Occorre trovare gli strumenti, politici e giuridici, per concretizzare quest’idea. Adesso. Qui.

Written by enricotomaselli

2 novembre 2011 at 00:01