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Arte pubblica: funzione o finzione?

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Se utilizziamo l’espressione arte pubblica nel senso corrente, facciamo riferimento all’arte collocata in un luogo pubblico, ed in particolare in un luogo aperto, e/o di transito.
Tradizionalmente, quindi, ciò che noi definiamo arte pubblica poteva identificarsi con alcune forme di architettura non-privata, e con i monumenti. I palazzi del potere, in senso ampio, così come le fontane monumentali, gli archi di trionfo – e poi via via obelischi, cippi, monumenti equestri e quant’altro – hanno chiaramente avuto, da sempre, una funzione eminentemente politica.
Funzione che a volte era esplicita, nella celebrazione di questo o quel personaggio, altre implicita, nella trasmissione di un’idea incarnata dal potere politico attraverso uno stile. In questo senso, ed in epoca moderna, i regimi totalitari del novecento ci hanno lasciato gli esempi più chiari; in particolare, lo stile littorio del fascismo, con il suo richiamo alla Roma imperiale, e quello grandiosamente proletario dei soviet, hanno incarnato alla massima potenza quest’idea di arte pubblica come funzione politica. L’arte (pubblica) nasceva all’interno delle cultura dominante, la esprimeva e la rafforzava simbolicamente. Non a caso, spesso accentuandone gli aspetti da culto della personalità, questa funzione dell’arte pubblica è poi trasmigrata verso alcuni paesi emergenti con regimi autoritari – ad esempio, l’Iraq di Saddam.

Daniel Buren - Arin Ponticelli

Daniel Buren – Arin Ponticelli

Il discorso si fa diverso, più sottile, in quei paesi dove si consolidano forme di democrazia rappresentativa, ed in cui si sviluppa un diverso rapporto con l’arte – in particolare, con l’arte contemporanea.
L’arte pubblica è ancora manifestazione del potere, poiché la sua realizzazione si lega a chi l’ha promossa, ed in qualche modo ne sancisce e celebra la capacità. Ma non esprime più un’idea, non trasmette valori intrinsecamente legati al potere politico. Si fa, insomma, realmente pubblica. Ma persa quella funzione eminentemente politica, ne ha acquisita un’altra?
É chiaro che questa non può essere meramente decorativa, forma preziosa di arredo urbano, tanto più che, non di rado, finisce col collocarsi in luoghi privi di decoro.
L’arte pubblica, dunque, dovrebbe oggi avere una funzione diversa, più ampia e profonda, non lontana da quella che dovrebbero svolgere i musei d’arte contemporanea. Perché – è ovvio ma vale la pena rammentarlo – l’arte pubblica è arte contemporanea, con tutto ciò che questo implica. Questa nuova funzione, dunque, è eminentemente sociale. Vuole non solo rappresentare la bellezza, ma essere strumento di educazione alla stessa.

Può essere interessante, al riguardo, osservare il ruolo dell’arte pubblica a Napoli.
Penso al palazzo ex-Arin a Ponticelli, con l’intervento di Daniel Buren, alle grandi installazioni in Piazza del Plebiscito, ma anche – ed ovviamente – alla metropolitana dell’arte, soprattutto laddove esse erutta in superficie, spargendo frammenti d’arte all’intorno delle sue stazioni. Ad esempio la nuova stazione Toledo, il cui spazio esterno è dominato dal cavaliere metallico di William Kentridge, ed ancor più all’area intorno la stazione di Salvator Rosa, disseminata d’interventi artistici opera di Mimmo Rotella, Ernesto Tatafiore, Mimmo Paladino, Renato Barisani, Gianni Pisani – e che, proprio come lava, si insinuano tra i palazzi e si inerpicano sulle facciate di questi.
Non meno interessati, in quanto spingono al massimo l’assottigliarsi del limes tra architettura ed arte visiva, alcune stazioni non ancora completate, come quella Duomo, con la lanterna magica di Massimiliano Fuksas, o quella di Monte S. Angelo progettata da Anish Kapoor sulla linea di raccordo tra Cumana e Circumflegrea.
C’è dunque, a Napoli, una cospicua presenza di arte pubblica, che la rende un caso interessante – tanto più che si innesta in un corpo urbano ricchissimo di testimonianze artistiche del passato. Va inoltre tenuto presente che la città – anche per la particolare struttura urbanistica del suo centro storico – si muove in una direzione di massiccia ed estesa pedonalizzazione, e quindi nei prossimi decenni cambierà significativamente la fruizione del tessuto urbano – e quindi, dell’arte pubblica.

La domanda quindi è: l’arte pubblica, a Napoli, assolve alla sua funzione?
Non semplicemente rendendo la città più bella – posto che lo faccia – ma fornendone a chi ci vive la consapevolezza, e radicando la coscienza che si tratta di un bene prezioso. Svolgendo, insomma, quel ruolo pedagogico di cui si diceva. Last but not least, attuando anche – attraverso la dimestichezza visiva della quotidianeità – una forma di educazione al contemporaneo, a cui i musei da soli non possono adempiere. Non si tratta, ovviamente, di una domanda retorica; per quanto mi riguarda, ritengo che la risposta non sia così netta. Per un verso, c’è una parte di città (autonomamente dotata degli strumenti culturali necessari), rispetto alla quale sicuramente si può affermare che questa funzione… funziona. Per un’altro, c’è la gran parte della cittadinanza a cui tutto ciò arriva in modo del tutto superficiale, indipendentemente dall’impatto estetico positivo o meno che ne riceve. Una parte cui sembra appartenere la stessa amministrazione comunale, che con la medesima superficialità si compiace dei riflessi positivi che l’arte pubblica riverbera su di essa, ma non sembra coglierne in alcun modo il significato profondo.
In tal modo, il dibattito pubblico sull’arte pubblica – che dovrebbe essere parte integrante del processo di crescita della città – semplicemente scompare, lasciando la scena ad una continua, quanto sterile, querelle tra conservatori e non, laddove i primi immaginano una città immutabile, congelata nel tempo (passato), mentre i secondi la immaginano soltanto come scenografia sul cui sfondo imbastire ogni genere di spettacolo.
Il caso delle luminarie di Natale, su cui recentemente polemizzava dalle pagine di Repubblica Eduardo Cicelyn, così come quello sull’uso – e l’illuminazione – di Piazza del Plebiscito, sono per l’appunto illuminanti.

Se, dunque, Napoli può essere considerata un case study per quanto riguarda l’impatto dell’arte pubblica, si può forse affermare in conclusione che la presenza della stessa – per quanto significativa per qualità e quantità – non è condizione sufficiente perchè svolga efficacemente il proprio ruolo. Perchè ciò avvenga, è necessaria un’azione coerente da parte delle pubbliche amministrazioni, così come una partecipazione attiva della cittadinanza ai processi che precedono e seguono le scelte in materia. Diversamente, il rischio è che tutto si riduca a costosissima scena. Mera finzione.

L’eccezione inculturale

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Da anni, ormai, nel lessico politico – ma non solo – è entrato in uso il termine glocal; ovviamente, il termine porta con sé un concetto, ed una più precisa definizione di questo. Si tratta di uno dei tanti in casi in cui le idee e le tematiche del movimento (impropriamente definito) no-global, sono entrati come per osmosi nel dibattito pubblico, spesso adottate da coloro che allora le avversarono. Del resto, si dice che un conservatore è colui che adotta le idee di un progressista quando questo le ha consumate
L’idea che sta dentro il termine glocal, è che occorre affrontare le problematiche localmente, inserendole sempre in un contesto dialettico con la dimensione globale *. Ed è quindi con un approccio glocal, che affronterò il post di questa settimana. Parlando come sempre di politiche culturali, ma cercando di mettere in connessione le problematiche locali con quelle generali.

L'exception culturelle firmata Cattelan

L’exception culturelle firmata Cattelan

É di questi ultimi giorni, il disvelamento del restyling cui è stato sottoposto il logo del MADRe. Parafrasando De Gregori, verrebbe da dire “non è da questi particolari, che si giudica un Direttore…”; certo che, almeno sotto questo profilo, la scelta appare pessima. Non c’era alcuna ragione di modificare il precedente logo, che aveva una sua precisa riconoscibilità, anche internazionale. E certamente la scelta fatta è francamente indicibile; per quanto giustificata come adozione di uno stile minimal, il nuovo logo appare più che altro insignificante. Prodotto dall’agenzia Leftloft di Milano, costato € 20.000 (per l’intera immagine grafica del museo, di cui comunque il logo costituisce elemento centrale), non può non riportare alla memoria la scandalosa scelta del nuovo logo di Salerno, costato ben € 200.000!, che sembra anch’esso uscito dalle mani di un adolescente e non da quelle di Massimo Vignelli. Per non parlare di quelli proposti alla scelta della Rete, in perfetto stile grillin-benecomunista, per la nuova società ABC (ex Arin): il raccapriccio è l’unica sensazione che si ricava vedendoli.
Ma non si doveva lavorare per l’immagine della città? A meno che l’idea non sia di rappresentarla quale effettivamente è: allo sbando.

Intanto, il patrimonio artistico-culturale del Paese continua ad essere abbandonato. L’area archeologica di Pompei rischia di finire sulla blacklist dell’UNESCO, se i 105 milioni stanziati per il Grande Progetto Pompei dall’ex Ministro Barca non daranno a breve i loro frutti. La Reggia di Caserta è trasformata in un suk. La vicina Reggia di Carditello, ormai in uno stato di totale degrado, non trova un solo investitore privato che voglia acquistarla – il che la dice lunga, sulle chance di integrare con fondi privati gli scarsi investimenti pubblici, ma anche sulla scarsa capacità pubblica di incentivarli. I lavoratori del Colosseo denunciano il pericoloso degrado del monumento-simbolo dell’Italia nel mondo. Piazza del Plebiscito è in condizioni vergognosamente indecenti, ma ci si accapiglia sul suo utilizzo come arena per concerti…
L’Italia investe in cultura circa la metà della media europea, poco più dell’1% del PIL. Eppure siamo il Paese che, secondo le stime UNESCO, detiene oltre il 50% dei beni artistici e culturali dell’intero pianeta!
Solo per la conservazione, sarebbe necessario investire almeno 3 volte tanto. Ma i governi (tutti) preferiscono un’altro genere d’investimenti. Missioni militari all’estero, o l’acquisto di cacciabombardieri costosissimi, malfunzionanti, il cui controllo rimarrebbe in mano USA, ed i cui costi di gestione sono stratosferici. E da ultimo, lo Stato Maggiore della Marina Militare chiede 10 miliardi per rinnovare la flotta!
E vogliamo parlare del famoso #decretodelfare? É vero, sono solo chiacchiere. Ma sapete qual’è lo spazio dedicato alla cultura? Semplicemente, non esiste.

Mentre in Italia si procede in modo del tutto estemporaneo, altrove si mettono in campo decise politiche di sostegno alla cultura.
A Roma si pensa di rendere triennale la carica di Direttore di Museo, ma senza riflettere sul fatto che una scadenza così breve è del tutto insufficiente – specie nel panorama italiano – per definire una politica museale. Se pure l’idea di inserire per legge un limite temporale massimo può essere considerato un fatto positivo, sarebbe più ragionevole pensare ad una durata di almeno 5/7 anni. Oppure, nell’eterna logica di ricavare reddito, si pensa di affittare all’estero (anche per vent’anni…) il patrimonio artistico conservato nei magazzini museali…
Risalta insomma, macroscopicamente, l’incapacità della classe dirigente italiana nel concepire una strategia di valorizzazione dell’enorme patrimonio culturale nazionale. In questi giorni, il governo francese, nell’ambito delle trattative USA/UE sull’interscambio commerciale, è riuscito ancora una volta ad ottenere una clausola di salvaguardia per le proprie produzioni culturali, quell’exception culturelle che consentirà alle nuove produzioni artistiche e culturali francesi di non essere soffocate dalla concorrenza statunitense. Un risultato ottenuto grazie alla chiara visione, da parte dei governi d’oltralpe, di come il patrimonio culturale costituisca non solo un’importante elemento identitario, ma anche un rilevante comparto economico.
Fintanto che l’Italia non sarà in grado di esprimere una classe dirigente consapevole e capace, che sappia fare del suo patrimonio culturale (passato, presente e futuro) un’elemento cardine per lo sviluppo sociale ed economico, l’unica eccezione culturale che potremo annoverare sarà quella di avere lo scarto maggiore al mondo, tra potenzialità e capacità di trarne vantaggio. Perchè, come scrive Christian Caliandro **, “oggi non solo la realtà può essere trasformata dall’azione e dal pensiero culturale, ma essa deve essere cambiata, per il semplice motivo che nella versione attuale non durerà a lungo (la sottolineatura è mia).
Ministro Bray, per favore: almeno lei, batta un colpo!

* Glocalizzazione o glocalismo è un termine introdotto dal sociologo Zygmunt Bauman per adeguare il panorama della globalizzazione alle realtà locali, così da studiarne meglio le loro relazioni con gli ambienti internazionali.

** Christian Caliandro, Italia revolution, Bompiani – grazie al blog di Pippo Civati per avermelo fatto scoprire…