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Sul come l’arte (pubblica) produce cambiamenti sociali

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Ma l’arte, in particolare l’arte pubblica, ha una sua utilità, che non sia puramente estetica? Ovvero, può esercitare un ruolo (attivo) nell’ambito di un processo di trasformazione urbana – laddove per urbana non si intende meramente urbanistico-architettonica, ma cittadina, e quindi anche dei suoi abitanti?
La prima considerazione che mi viene in mente, è che l’arte – sempre e comunque – ci interroga, e lo fa in modo diretto e personale. La sua azione, quindi, si rivolge – e si svolge – verso la persona, pertanto ogni sua valenza e capacità sociale passa attraverso il singolo.
Una comunità (urbana) del resto è composta da un insieme di singolarità, con un minimo comun denominatore culturale, che è più o meno fortemente segnato dall’essere la comunità di quella specifica città.
Un arte pubblica, quindi, deve necessariamente indurre a far crescere il senso di appartenenza, cioè quel legame culturale ed impersonale che accomuna i cittadini e la città.
Deve cioè innanzitutto dialogare, con entrambe. Stabilire una relazione dialettica, con gli abitanti ma anche con l’abitato, ovvero con il territorio su cui insiste.
E la difficoltà maggiore che incontra, già proprio nello stabilire questo dialogo, consiste nel suo intervenire per trasformare il paesaggio. Il paesaggio urbano, infatti, e persino indipendentemente dal suo (eventuale) degrado, è percepito come un’estensione della dimensione domestica, ha una sua capacità rassicurante, che nasce proprio dal suo essere scenografia quotidiana della vita. Ogni intervento, pertanto, deve necessariamente aggiungere qualcosa, per farsi perdonare questa rottura degli equilibri visivi preesistenti.
Nel caso dell’arte, diversamente dagli interventi meramente architettonici e/o urbanistici, questa funzione additiva – in mancanza di una utilità pratica – diventa ancor più necessaria.
Peraltro, in realtà l’intervento dell’arte pubblica si accompagna spesso a quello urbanistico, in un rapporto dialettico tra i due.

Centre Georges Pompidou, il b-side

Centre Georges Pompidou, il b-side

Se, dunque, l’arte pubblica va ad invadere un tessuto urbano, modificandone la trama, con la sua azione trasformatrice dello scenario urbano costringe il cittadino ad interrogarsi sul proprio rapporto con il (suo) territorio.
Questo rapporto, in particolare in Europa, dove le città hanno molto spesso una lunghissima storia alle spalle, risente fortemente della particolare stratificazione urbanistica – e quindi sociale e culturale. La stessa idea di centro storico è, ad esempio, peculiare delle città europee, e determina a sua volta una diversa idea (ed una diversa realtà) di periferia.
Un classico elemento di frizione, quindi, è l’innesto di elementi di assoluta contemporaneità in un contesto urbano fortemente caratterizzato, al contrario, dalla storicità.
Un esempio altamente significativo, anche se non si può parlare strettamente di arte pubblica, può essere considerato il Centre Georges Pompidou di Parigi. Costruito sulla piazza di Beaubourg, adiacente al quartiere del Marais (che ha mantenuto l’architettura pre-rivoluzionaria e non ha conosciuto le trasformazioni ottocentesche del barone Haussmann) costituisce in effetti – e ben al di là della sua funzione pratica di istituzione per l’arte moderna e contemporanea e di biblioteca – un vero e proprio intervento artistico. La sua dimensione, la sua struttura architettonica a nudo, la colorazione audace, collocate in un contesto seicentesco, fecero dire al New York Times che il progetto di Renzo Piano “ha rovesciato l’architettura mondiale”. Inoltre, la presenza della vicina fontana Stravinsky, con le opere di Jean Tinguely e Niki de Saint-Phalle, sottolinea ulteriormente – in questo caso proprio con un intervento d’arte pubblica – la rottura con il contesto circostante.

É facile immaginare come questo genere di rottura possa generare conflitti, sul piano culturale prima di tutto. Eppure oggi, a distanza di quasi quarant’anni, per quanto la sua modernità sia ancora assolutamente tale, ed immediatamente percepibile, il Beaubourg appare del tutto integrato nell’ambiente urbano.
Il tempo, lo ha reso parte di quella scenografia quotidiana.
Sempre parlando di Parigi, si può ricordare anche la piramide in vetro di Ieoh Ming Pei al Louvre. Altro esempio di (fecondo) contrasto tra contemporaneo ed antico in ambito urbano. In entrambe i casi, è indubitabile come l’intervento non solo abbia aggiunto funzione, ma anche senso di identità. Del resto, il simbolo di Parigi non è forse la Tour Eiffel?

Questo tipo di intervento richiede però, da un lato, una capacità di visione, uno sguardo lungo, da parte della committenza pubblica, e dall’altro una capacità di dialogo di questa con la città. Ed ovviamente in primis con quella parte di società urbana che è maggiormente sensibile, ed interessata, alla sfera culturale.
Anche perchè questa costituisce il trait d’union con la città in senso più ampio, ed ha un ruolo importante nel veicolare il senso delle scelte operate.
Purtroppo, non sempre questa capacità di visione e di dialogo sono presenti.
Viene in mente, ad esempio, la recente querelle sull’intervento immaginato da William Kentridge sul lungotevere a Roma.
Proseguendo la serie di interventi che già da alcuni anni vengono realizzati su iniziativa di Tevereterno, il progetto di Kentridge prevede la realizzazione di un’opera lunga 550 metri sui muraglioni del Tevere compresi tra ponte Sisto e ponte Mazzini. Attraverso la pulitura selettiva della patina di smog e della pellicola biologica accumulatasi sulle superfici, l’artista sudafricano creerà oltre novanta figure, alte fino a nove metri, che si snoderanno come un enorme storyboard in cui trionfi e sconfitte dell’umanità, dall’età del mito fino ad oggi, formeranno una grande narrazione epica.
Un’intervento che, per dimensione, richiama il Jaya He concepito per il nuovo aereoporto di Mumbai (oltre 3 kilometri di esposizione d’arte).
Ebbene, per quanto si tratti di un intervento caratterizzato da assoluto rispetto per l’ambito d’intervento, con una fortissima coerenza con la dimensione storica dello stesso, e per di più interamente finanziato da privati, non sono mancate le polemiche da parte di alcune istituzioni. Sembra anzi che la Sovrintendenza abbia proprio bloccato il progetto.

Un’altro piano di frizione (quanto meno possibile), dopo quello antico/contemporaneo, tipico dei centri storici, è quello della riqualificazione urbana, a sua volta tipica delle periferie.
L’arte pubblica, collocata in contesti urbanisticamente e/o socialmente degradati, può essere considerata di per sé un intervento riqualificante? O deve, sempre e comunque, accompagnarsi ad interventi strutturali di rewamping del territorio?
Se, per un verso, è possibile che l’arte pubblica venga utilizzata (da amministrazioni pigre o tirchie…) come placebo sostitutivo rispetto ad interventi più significativi, per un altro è anche vero che – almeno a mio avviso – essa può talvolta parzialmente sopperire alla mancanza di questi interventi, che forse non ci sarebbero comunque.
Va da sé che, ovviamente, è preferibile che l’intervento dell’arte pubblica si accompagni alla riqualificazione urbana del sito, laddove necessaria. Ma è pur sempre vero che si tratterebbe di aggiungere al quadro una bella cornice; operazione opportuna, ma che non incide realmente sull’eventuale degrado circostante, limitandosi a creare una zona di rispetto intorno all’opera d’arte. Il che, paradossalmente, potrebbe ingenerare la sensazione che tutto l’intervento (artistico ed urbanistico) sia costruito intorno – e per – l’opera, piuttosto che per i cittadini.

Ciò che invece mi sembra opportuno sottolineare, è che anche per l’arte (pubblica) vale quel che è vero più in generale per la polis. Pensarla in modo segmentato, con approcci parziali sconnessi l’uno dall’altro, rischia fortemente di non produrre alcun risultato. Occorre al contrario pensare la città come un unicuum organico, nel doppio significato di tenuta insieme da relazioni articolate e reciproche (in quanto organizzata, dotata cioè di organi) e di organismo vivente.
L’intervento dell’arte pubblica sul territorio urbano, quindi, per divenire innesco e stimolo di processi sociali (positivi), necessita innanzitutto di essere concepita come parte di un percorso generale di trasformazione, che in quanto tale necessità di una visione d’insieme e di una volontà.
Tutto ciò, ovviamente, non certo in una logica da socialismo reale, quanto piuttosto come crescita sociale e culturale fondata sullo sviluppo di relazioni tra i soggetti presenti sul territorio.

Arte pubblica: funzione o finzione?

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Se utilizziamo l’espressione arte pubblica nel senso corrente, facciamo riferimento all’arte collocata in un luogo pubblico, ed in particolare in un luogo aperto, e/o di transito.
Tradizionalmente, quindi, ciò che noi definiamo arte pubblica poteva identificarsi con alcune forme di architettura non-privata, e con i monumenti. I palazzi del potere, in senso ampio, così come le fontane monumentali, gli archi di trionfo – e poi via via obelischi, cippi, monumenti equestri e quant’altro – hanno chiaramente avuto, da sempre, una funzione eminentemente politica.
Funzione che a volte era esplicita, nella celebrazione di questo o quel personaggio, altre implicita, nella trasmissione di un’idea incarnata dal potere politico attraverso uno stile. In questo senso, ed in epoca moderna, i regimi totalitari del novecento ci hanno lasciato gli esempi più chiari; in particolare, lo stile littorio del fascismo, con il suo richiamo alla Roma imperiale, e quello grandiosamente proletario dei soviet, hanno incarnato alla massima potenza quest’idea di arte pubblica come funzione politica. L’arte (pubblica) nasceva all’interno delle cultura dominante, la esprimeva e la rafforzava simbolicamente. Non a caso, spesso accentuandone gli aspetti da culto della personalità, questa funzione dell’arte pubblica è poi trasmigrata verso alcuni paesi emergenti con regimi autoritari – ad esempio, l’Iraq di Saddam.

Daniel Buren - Arin Ponticelli

Daniel Buren – Arin Ponticelli

Il discorso si fa diverso, più sottile, in quei paesi dove si consolidano forme di democrazia rappresentativa, ed in cui si sviluppa un diverso rapporto con l’arte – in particolare, con l’arte contemporanea.
L’arte pubblica è ancora manifestazione del potere, poiché la sua realizzazione si lega a chi l’ha promossa, ed in qualche modo ne sancisce e celebra la capacità. Ma non esprime più un’idea, non trasmette valori intrinsecamente legati al potere politico. Si fa, insomma, realmente pubblica. Ma persa quella funzione eminentemente politica, ne ha acquisita un’altra?
É chiaro che questa non può essere meramente decorativa, forma preziosa di arredo urbano, tanto più che, non di rado, finisce col collocarsi in luoghi privi di decoro.
L’arte pubblica, dunque, dovrebbe oggi avere una funzione diversa, più ampia e profonda, non lontana da quella che dovrebbero svolgere i musei d’arte contemporanea. Perché – è ovvio ma vale la pena rammentarlo – l’arte pubblica è arte contemporanea, con tutto ciò che questo implica. Questa nuova funzione, dunque, è eminentemente sociale. Vuole non solo rappresentare la bellezza, ma essere strumento di educazione alla stessa.

Può essere interessante, al riguardo, osservare il ruolo dell’arte pubblica a Napoli.
Penso al palazzo ex-Arin a Ponticelli, con l’intervento di Daniel Buren, alle grandi installazioni in Piazza del Plebiscito, ma anche – ed ovviamente – alla metropolitana dell’arte, soprattutto laddove esse erutta in superficie, spargendo frammenti d’arte all’intorno delle sue stazioni. Ad esempio la nuova stazione Toledo, il cui spazio esterno è dominato dal cavaliere metallico di William Kentridge, ed ancor più all’area intorno la stazione di Salvator Rosa, disseminata d’interventi artistici opera di Mimmo Rotella, Ernesto Tatafiore, Mimmo Paladino, Renato Barisani, Gianni Pisani – e che, proprio come lava, si insinuano tra i palazzi e si inerpicano sulle facciate di questi.
Non meno interessati, in quanto spingono al massimo l’assottigliarsi del limes tra architettura ed arte visiva, alcune stazioni non ancora completate, come quella Duomo, con la lanterna magica di Massimiliano Fuksas, o quella di Monte S. Angelo progettata da Anish Kapoor sulla linea di raccordo tra Cumana e Circumflegrea.
C’è dunque, a Napoli, una cospicua presenza di arte pubblica, che la rende un caso interessante – tanto più che si innesta in un corpo urbano ricchissimo di testimonianze artistiche del passato. Va inoltre tenuto presente che la città – anche per la particolare struttura urbanistica del suo centro storico – si muove in una direzione di massiccia ed estesa pedonalizzazione, e quindi nei prossimi decenni cambierà significativamente la fruizione del tessuto urbano – e quindi, dell’arte pubblica.

La domanda quindi è: l’arte pubblica, a Napoli, assolve alla sua funzione?
Non semplicemente rendendo la città più bella – posto che lo faccia – ma fornendone a chi ci vive la consapevolezza, e radicando la coscienza che si tratta di un bene prezioso. Svolgendo, insomma, quel ruolo pedagogico di cui si diceva. Last but not least, attuando anche – attraverso la dimestichezza visiva della quotidianeità – una forma di educazione al contemporaneo, a cui i musei da soli non possono adempiere. Non si tratta, ovviamente, di una domanda retorica; per quanto mi riguarda, ritengo che la risposta non sia così netta. Per un verso, c’è una parte di città (autonomamente dotata degli strumenti culturali necessari), rispetto alla quale sicuramente si può affermare che questa funzione… funziona. Per un’altro, c’è la gran parte della cittadinanza a cui tutto ciò arriva in modo del tutto superficiale, indipendentemente dall’impatto estetico positivo o meno che ne riceve. Una parte cui sembra appartenere la stessa amministrazione comunale, che con la medesima superficialità si compiace dei riflessi positivi che l’arte pubblica riverbera su di essa, ma non sembra coglierne in alcun modo il significato profondo.
In tal modo, il dibattito pubblico sull’arte pubblica – che dovrebbe essere parte integrante del processo di crescita della città – semplicemente scompare, lasciando la scena ad una continua, quanto sterile, querelle tra conservatori e non, laddove i primi immaginano una città immutabile, congelata nel tempo (passato), mentre i secondi la immaginano soltanto come scenografia sul cui sfondo imbastire ogni genere di spettacolo.
Il caso delle luminarie di Natale, su cui recentemente polemizzava dalle pagine di Repubblica Eduardo Cicelyn, così come quello sull’uso – e l’illuminazione – di Piazza del Plebiscito, sono per l’appunto illuminanti.

Se, dunque, Napoli può essere considerata un case study per quanto riguarda l’impatto dell’arte pubblica, si può forse affermare in conclusione che la presenza della stessa – per quanto significativa per qualità e quantità – non è condizione sufficiente perchè svolga efficacemente il proprio ruolo. Perchè ciò avvenga, è necessaria un’azione coerente da parte delle pubbliche amministrazioni, così come una partecipazione attiva della cittadinanza ai processi che precedono e seguono le scelte in materia. Diversamente, il rischio è che tutto si riduca a costosissima scena. Mera finzione.

L’infarto della cultura

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Un discusso libro di successo, pubblicato in Germania, porta il titolo di “Kulturinfarkt” e sostiene la tesi che la smisurata offerta e il monopolio statale stanno portando le istituzioni culturali verso il crack, non solo economico. Com’era prevedibile, affetti come siamo da un inguaribile e miope provincialismo, il caso è stato utilizzato per sostenere anche in Italia una tesi simile – tradotta nella pratica dei tagli lineari alla cultura, cercando poi di cucirci sopra una veste teorica che li giustificasse con nobili intenzioni.
La realtà, come tutti ben sappiamo, è esattamente opposta: la cultura italiana è a rischio d’infarto non per eccesso di fondi pubblici, ma per la loro drammatica e subitanea diminuzione.
“Clinicamente l’infarto è una sindrome acuta provocata da una insufficiente irrorazione sanguigna ad un organo o a parte di esso, per una occlusione improvvisa o per una stenosi critica delle arterie che portano il sangue in quel distretto dell’organismo.” (Fonte: Wikipedia).
Ovvero esattamente ciò che sta per accadere: l’insufficiente irrorazione di fluido vitale, porterà al collasso il mondo culturale italiano.
Purtroppo, ad una stagione di allegro sperpero delle risorse pubbliche, sul finire della Prima Repubblica, ha fatto seguito l’infausta stagione del finto rigore durante la Seconda. Dalla balzana idea – inaugurata lessicamente dal Presidente del Consiglio Bettino Craxi, e riassunta nell’espressione azienda Italia (come se una nazione potesse essere considerata e guidata come un’azienda…) – si è poi arrivati ad un’idea della gestione dei conti pubblici assolutamente ragionieristica. Fatto salvo il fatto che poi, all’ombra di questa ideologia della quadratura dei conti, l’ultimo quindicennio si sia caratterizzato soprattutto per tre elementi: continui tagli lineari al welfare ed alla cultura, aumento della spesa pubblica (e quindi del debito), crescita della forbice tra ricchi e poveri. Insomma, il regno di Supeciuck, l’eroe dei fumetti che rubava ai poveri per dare ai ricchi…

Superciuk

Superciuk

La tesi reale del libro tedesco, è che un sostegno troppo forte ad una cultura di massa, ovvero largamente presente e diffusa, ed economicamente accessibile a tutti, produca esiti negativi, soffocando la possibilità di far emergere ciò che invece è qualitativamente significativo, e scoraggiando l’innovazione. Al contrario, in Italia abbiamo esiti simili, ma provocati da una situazione opposta, assolutamente asfittica, nel sostegno pubblico.
Oltretutto, il nostro Paese presenta delle unicità assolute, che lo rendono imparagonabile ad altri.
L’Italia possiede gran parte dei beni artistici e culturali del pianeta, non a caso è universalmente considerata culla della cultura, e gode dei più ampi riconoscimenti dell’UNESCO. Questo è un dato che porta con sé importanti conseguenze, anche materiali. Innanzitutto, la mera conservazione dello sterminato patrimonio artistico storico ed archeologico, richiede forti risorse, che assorbono gran parte della spesa pubblica nel settore. Pur risultando insufficienti.
Per altro verso, l’immensità di questo patrimonio porta spesso a pensare che abbiamo già dato, che il contributo italiano all’arte ed alla cultura sia stato così ampio e significativo da poterci fermare qui. Da cui consegue il disinteresse, quando non addirittura il fastidio, per ciò che arte e cultura possono produrre di nuovo.

Guardando poi allo specifico del territorio campano e napoletano, questa dimensione appare ancor più cruda. Lo scarto tra risorse pubbliche investite in cultura, e gli esiti di questi investimenti, è assolutamente macroscopico. E se, da un lato, l’insediamento archeologico di Pompei rappresenta un po’ il paradigma di questa cattiva politica – laddove un luogo di straordinaria ed assoluta bellezza, con una capacità attrattiva forse unica al mondo, si sbriciola nell’incuria, rimane fruibile solo in minima parte, ed appare circondato da un bazar di paccottiglia – dall’altro il lento degrado culturale della città di Napoli, in cui non si riesce a costruire uno straccio di politica culturale degno di questo nome, rappresenta tangibilmente l’insufficienza e l’inadeguatezza, non solo e non tanto dei fondi pubblici, quanto delle istituzioni e di quanti le rappresentano.
Anche se, in quest’ultimo scorcio di 2012, si intravede qualche segnale positivo di fermento, con alcune mostre importanti in città – dall’inaugurazione del nuovo MADRe con Sol LeWitt a Jimmie Durham a Palazzo Reale, da William Kentridge nella Stazione Toledo della metropolitana e da Lia Rumma, a Rebecca Horn allo Studio Trisorio – quello che continua a mancare è la dimensione sistemica, la progettualità complessiva e di lungo respiro, l’attenzione non episodica alle nuove energie artistiche. Quella che continua a mancare è una visione della città, del suo futuro, e quindi una politica che provi a costruirlo, questo futuro.
E se è pur vero che la città versa in una condizione economica disastrosa, non si può non constatare come si spendano risorse – anche ingenti – solo per eventi spettacolari, forse di grande visibilità mediatica ma che lasciano ben poco sul territorio, e soprattutto non contribuiscono in alcun modo allo sviluppo di un sistema duraturo. Non si vede alcuna progettualità.

Se c’è una cosa di cui si avverte davvero il vuoto, a Napoli, è una prospettiva. Non c’è alcuna idea del dove stia andando la città (mentre invece si capisce bene dove stia andando il Sindaco…), del come si possa affrontare il futuro – con quali obiettivi, con quali tempi, con quali risorse. Con quali idee.
Vorrei che l’anno che verrà, non fosse segnato soltanto dall’inevitabile fallimento del Forum delle Culture 2013, ma registrasse in qualche modo l’avvio di una fase nuova, in cui si comincia a progettare per il futuro – e non solo quello remoto. Vorrei che la città tornasse ad interrogarsi – e ad ascoltarsi – su come uscire dal declino.
Vorrei una trasfusione di buona politica. E quindi, che fossero innanzitutto i cittadini a tornare protagonisti.
Perchè per come sta messa la Sanità Pubblica, meglio prevenirlo, l’infarto.

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Ci prendiamo intanto una pausa, e ci rivediamo il 4 gennaio. Con l’augurio che, nonostante tutto, queste festività ci vedano tutt* seren*, e ci restituiscano alla quotidianeità più combattivi di prima…