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L’infarto della cultura
Un discusso libro di successo, pubblicato in Germania, porta il titolo di “Kulturinfarkt” e sostiene la tesi che la smisurata offerta e il monopolio statale stanno portando le istituzioni culturali verso il crack, non solo economico. Com’era prevedibile, affetti come siamo da un inguaribile e miope provincialismo, il caso è stato utilizzato per sostenere anche in Italia una tesi simile – tradotta nella pratica dei tagli lineari alla cultura, cercando poi di cucirci sopra una veste teorica che li giustificasse con nobili intenzioni.
La realtà, come tutti ben sappiamo, è esattamente opposta: la cultura italiana è a rischio d’infarto non per eccesso di fondi pubblici, ma per la loro drammatica e subitanea diminuzione.
“Clinicamente l’infarto è una sindrome acuta provocata da una insufficiente irrorazione sanguigna ad un organo o a parte di esso, per una occlusione improvvisa o per una stenosi critica delle arterie che portano il sangue in quel distretto dell’organismo.” (Fonte: Wikipedia).
Ovvero esattamente ciò che sta per accadere: l’insufficiente irrorazione di fluido vitale, porterà al collasso il mondo culturale italiano.
Purtroppo, ad una stagione di allegro sperpero delle risorse pubbliche, sul finire della Prima Repubblica, ha fatto seguito l’infausta stagione del finto rigore durante la Seconda. Dalla balzana idea – inaugurata lessicamente dal Presidente del Consiglio Bettino Craxi, e riassunta nell’espressione azienda Italia (come se una nazione potesse essere considerata e guidata come un’azienda…) – si è poi arrivati ad un’idea della gestione dei conti pubblici assolutamente ragionieristica. Fatto salvo il fatto che poi, all’ombra di questa ideologia della quadratura dei conti, l’ultimo quindicennio si sia caratterizzato soprattutto per tre elementi: continui tagli lineari al welfare ed alla cultura, aumento della spesa pubblica (e quindi del debito), crescita della forbice tra ricchi e poveri. Insomma, il regno di Supeciuck, l’eroe dei fumetti che rubava ai poveri per dare ai ricchi…
La tesi reale del libro tedesco, è che un sostegno troppo forte ad una cultura di massa, ovvero largamente presente e diffusa, ed economicamente accessibile a tutti, produca esiti negativi, soffocando la possibilità di far emergere ciò che invece è qualitativamente significativo, e scoraggiando l’innovazione. Al contrario, in Italia abbiamo esiti simili, ma provocati da una situazione opposta, assolutamente asfittica, nel sostegno pubblico.
Oltretutto, il nostro Paese presenta delle unicità assolute, che lo rendono imparagonabile ad altri.
L’Italia possiede gran parte dei beni artistici e culturali del pianeta, non a caso è universalmente considerata culla della cultura, e gode dei più ampi riconoscimenti dell’UNESCO. Questo è un dato che porta con sé importanti conseguenze, anche materiali. Innanzitutto, la mera conservazione dello sterminato patrimonio artistico storico ed archeologico, richiede forti risorse, che assorbono gran parte della spesa pubblica nel settore. Pur risultando insufficienti.
Per altro verso, l’immensità di questo patrimonio porta spesso a pensare che abbiamo già dato, che il contributo italiano all’arte ed alla cultura sia stato così ampio e significativo da poterci fermare qui. Da cui consegue il disinteresse, quando non addirittura il fastidio, per ciò che arte e cultura possono produrre di nuovo.
Guardando poi allo specifico del territorio campano e napoletano, questa dimensione appare ancor più cruda. Lo scarto tra risorse pubbliche investite in cultura, e gli esiti di questi investimenti, è assolutamente macroscopico. E se, da un lato, l’insediamento archeologico di Pompei rappresenta un po’ il paradigma di questa cattiva politica – laddove un luogo di straordinaria ed assoluta bellezza, con una capacità attrattiva forse unica al mondo, si sbriciola nell’incuria, rimane fruibile solo in minima parte, ed appare circondato da un bazar di paccottiglia – dall’altro il lento degrado culturale della città di Napoli, in cui non si riesce a costruire uno straccio di politica culturale degno di questo nome, rappresenta tangibilmente l’insufficienza e l’inadeguatezza, non solo e non tanto dei fondi pubblici, quanto delle istituzioni e di quanti le rappresentano.
Anche se, in quest’ultimo scorcio di 2012, si intravede qualche segnale positivo di fermento, con alcune mostre importanti in città – dall’inaugurazione del nuovo MADRe con Sol LeWitt a Jimmie Durham a Palazzo Reale, da William Kentridge nella Stazione Toledo della metropolitana e da Lia Rumma, a Rebecca Horn allo Studio Trisorio – quello che continua a mancare è la dimensione sistemica, la progettualità complessiva e di lungo respiro, l’attenzione non episodica alle nuove energie artistiche. Quella che continua a mancare è una visione della città, del suo futuro, e quindi una politica che provi a costruirlo, questo futuro.
E se è pur vero che la città versa in una condizione economica disastrosa, non si può non constatare come si spendano risorse – anche ingenti – solo per eventi spettacolari, forse di grande visibilità mediatica ma che lasciano ben poco sul territorio, e soprattutto non contribuiscono in alcun modo allo sviluppo di un sistema duraturo. Non si vede alcuna progettualità.
Se c’è una cosa di cui si avverte davvero il vuoto, a Napoli, è una prospettiva. Non c’è alcuna idea del dove stia andando la città (mentre invece si capisce bene dove stia andando il Sindaco…), del come si possa affrontare il futuro – con quali obiettivi, con quali tempi, con quali risorse. Con quali idee.
Vorrei che l’anno che verrà, non fosse segnato soltanto dall’inevitabile fallimento del Forum delle Culture 2013, ma registrasse in qualche modo l’avvio di una fase nuova, in cui si comincia a progettare per il futuro – e non solo quello remoto. Vorrei che la città tornasse ad interrogarsi – e ad ascoltarsi – su come uscire dal declino.
Vorrei una trasfusione di buona politica. E quindi, che fossero innanzitutto i cittadini a tornare protagonisti.
Perchè per come sta messa la Sanità Pubblica, meglio prevenirlo, l’infarto.
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Ci prendiamo intanto una pausa, e ci rivediamo il 4 gennaio. Con l’augurio che, nonostante tutto, queste festività ci vedano tutt* seren*, e ci restituiscano alla quotidianeità più combattivi di prima…